Un altro caso di “legalità sospesa”: la condanna UE sul sovraffollamento delle carceri italiane.

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Lo scorso 27 maggio, la Corte europea dei diritti dell’uomo ha condannato in via definitiva l’Italia per trattamento inumano e degradante di sette detenuti nel carcere di Busto Arsizio e in quello di Piacenza, invitando il Governo italiano a trovare in tempi rapidi una soluzione al sovraffollamento carcerario e introdurre una procedura per risarcire i detenuti che ne sono stati vittime.
Secondo la Corte europea, l’Italia avrebbe violato i diritti dei detenuti tenendoli in celle dove hanno a disposizione meno di tre metri quadrati. La condanna è per trattamento inumano e degradante di sette detenuti nel carcere di Busto Arsizio e in quello di Piacenza. Il nostro Paese dovrà pagare loro un ammontare totale di 100 mila euro per danni morali.
Non è la prima volta che l’Italia viene condannata per aver tenuto i reclusi in celle troppo piccole. La prima condanna risale al luglio del 2009 e riguardava un detenuto nel carcere di Rebibbia di Roma. Dopo questa prima sentenza l’Italia ha messo a punto il “piano carceri” che prevede la costruzione di nuovi penitenziari e l’ampliamento di quelli esistenti oltre che il ricorso a pene alternative.
Attualmente ci sono circa 68 mila detenuti rinchiusi in edifici destinati a non più di 45.654 persone. Le 206 carceri italiane stanno scoppiando: in 45 mila e 654 posti, sono stipati più di 68 mila detenuti, il 30% stranieri.
Siamo di fronte ad una emergenza che rischia di travolgere il senso stesso della nostra civiltà giuridica poiché il detenuto è privato delle libertà soltanto per scontare la sua pena e non può essergli negata la sua dignità di persona umana.

La sentenza della Corte europea afferma che la privazione della libertà dovrebbe essere considerata come una sanzione o una misura di ultima istanza e dovrebbe pertanto essere prevista soltanto quando la gravità del reato renderebbe qualsiasi altra sanzione o misura manifestamente inadeguata. L’ampliamento del parco penitenziario dovrebbe essere piuttosto una misura eccezionale in quanto, in generale, non è adatta ad offrire una soluzione duratura al problema del sovraffollamento. I Paesi la cui capacità carceraria potrebbe essere nel complesso sufficiente ma non adeguata ai bisogni locali, dovrebbero sforzarsi di giungere ad una ripartizione più razionale di tale capacità.
È opportuno, inoltre, prevedere un insieme appropriato di sanzioni e di misure applicate nella comunità, eventualmente graduate in termini di gravità. Gli Stati membri dovrebbero esaminare l’opportunità di depenalizzare alcuni tipi di delitti o di riqualificarli in modo da evitare che essi richiedano l’applicazione di pene privative della libertà.
Al fine di concepire un’azione coerente contro il sovraffollamento delle carceri e l’inflazione carceraria, dovrebbe essere condotta un’analisi dettagliata dei principali fattori che contribuiscono a questi fenomeni. Un’analisi di questo tipo dovrebbe riguardare, in particolare, le categorie di reati che possono comportare lunghe pene detentive, le priorità in materia di lotta alla criminalità, e gli atteggiamenti e le preoccupazioni del pubblico nonché le prassi esistenti in materia di comminazione delle pene.
La sentenza merita un’analisi attenta specialmente perché costituisce una sentenza pilota della Corte Europea che affronta il problema strutturale del disfunzionamento del sistema penitenziario italiano. La Corte Europea di Strasburgo oltre a valutare la richiesta presentata dai ricorrenti nel caso specifico, identifica i casi che sono da ricondursi a una medesima categoria e che sono quindi imputabili ad un mal funzionamento comune dello Stato citato in giudizio.
Si consideri che in una sentenza pilota il ruolo della Corte Europea è non solo quello di pronunciarsi sulla violazione della Convenzione nel caso specifico, bensì anche quello di identificare il problema sistematico e dare precise indicazioni al legislatore nazionale sui rimedi necessari nel rispetto del principio di sussidiarietà, non sorprende dunque l’addebito attribuito all’Italia su una questione di costante emergenza. Il rimedio adottato dallo Stato contraente o comunque il pacchetto di misure deve essere effettivo cioè tale da poter, in conformità con la Convenzione, adeguatamente risolvere il problema del sovraffollamento negli istituti penitenziari.
I contraenti delle obbligazioni iscritte nella Carta sono gli Stati firmatari, pertanto in virtù dell’art. 46 della Convenzione, è lo Stato contraente il soggetto tenuto a conformarsi alle indicazioni della Corte essendo queste dotate di vincolatività e titolo esecutivo. La pronuncia in oggetto contro lo Stato italiano costituisce quindi un’obbligazione di risultato da ottemperare nel periodo indicato di un anno. La vincolatività della sentenza si esplica quindi nei confronti dello Stato.
Il richiamo indirizzato allo Stato per garantire i diritti sanciti dalla Carta lascia, fino all’intervento legislativo, l’autorità giudiziaria pienamente libera di operare, nell’abito della propria discrezionalità, le scelte più opportune al caso concreto.
La Corte di Strasburgo nell’indicare al legislatore statale l’istituzione e la promozione di misure alternative, opera una scelta di carattere politico-giudiziario e si mostra quale corte di vertice del sistema di garanzie stabilite dalla Carta.